In difesa del popolo sovrano

In difesa del popolo sovrano

Vi propongo un’interessante riflessione di Enrico Peyretti, un intellettuale italiano impegnato nel movimento per la nonviolenza e la pace. Buona lettura.


Dopo la condanna costituzionale del “lodo Alfano” e il conflitto istituzionale che ne è sciaguratamente seguito, andiamo alle radici della questione.

«La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 Costituzione italiana). Neppure la sovranità popolare è assoluta, né assoluta è la volontà del popolo sovrano: deve essere esercitata entro i limiti dati e nelle forme stabilite dalla Costituzione. Nessuna forza sociale è sciolta dalla legge. Anche la forza del numero degli elettori è soggetta alla legge. La coscienza personale, anche di uno solo, può sentire intimamente il dovere di disobbedire una legge che sente ingiusta (obiezione di coscienza), ma nello stesso tempo la obbedisce con l’accettare le conseguenze della propria disobbedienza civile (al contrario della disobbedienza occulta), e così preme lealmente per modificarla. La volontà anche della massima parte del popolo, non può violare i limiti costituzionali e i valori umani e civili ivi individuati.

Tanto meno è al di sopra delle legge chi viene eletto, pur legittimamente, all’elettorato. È falso dire che egli è un «primus super pares», come dice un dipendente politico di Berlusconi. Addirittura, se si pensa moralmente e democraticamente un “in-carico” politico come un servizio al bene comune, ogni eletto è, in certo modo, «sotto», e non sopra i suoi concittadini, perché è “caricato” del dovere di servirli. Così ha sempre sentito la migliore etica politica.

Legiferare, fare onestamente le leggi che obbligano tutti, non è mai un semplice atto di forza, neppure della forza del numero, ma deve avvenire secondo le «regole per fare le regole», cioè nel pieno rispetto formale e sostanziale delle regole costituzionali. Il numero non muta le regole, se non secondo le regole stesse.

Il consenso popolare, oltre che libero da forzature, deve essere anche «consenso informato», cioè fornito di conoscenze per valutare qualità e scopi dei candidati a governare e l’azione dei governanti. Occorre anche che il libero dibattito pubblico protegga il popolo dal fascino che un uomo ricco e fortunato può suscitare sugli animi più deboli, o resi tali da influenze condizionanti sull’immaginazione pubblica. È questo precisamente il caso della fortuna politica di Berlusconi in Italia, fabbricata prima con la bassezza diseducativa e la depressione morale delle televisioni commerciali, e poi mietuta col consenso politico relativo.

Il linguaggio e le arti della pubblicità commerciale – che è stata bene definita «il fascismo del nostro tempo» – trasferite nella politica, distruggono la libertà civica, perché, per loro natura e finalità, intendono aggirare la soglia critica delle persone e indurre a comportamenti realmente imposti, e non decisi liberamente. Se questa è disonestà nel commercio, in politica è delitto. Tutto il contrario di un “popolo della libertà”!

Poiché la ricchezza, con la sua potenza sugli altri, è soltanto un potere di fatto, e non un potere legale, deve essere soggetta, con particolare sorveglianza e oculatezza, alle regole di giustizia. Il ricco deve essere più, e non meno dei comuni cittadini, sorvegliato e controllato sulla legalità dei suoi atti. Se, nella gestione dei suoi beni, un ricco avesse commesso scorrettezze o reati, dovrebbe essere punito semmai più prontamente e severamente, e non meno dei comuni cittadini, nel caso che al potere della ricchezza abbia cumulato un potere politico. Questo è, evidentemente, il caso di Berlusconi, che invece ha approfittato del potere politico per sottrarsi al controllo della giustizia. Egli ha sempre accusato preventivamente i giudici, tutti i giudici che hanno avuto in mano cause sue, per delegittimarne in anticipo il giudizio, o impedirne l’esercizio. Chi agisce così corrompe alla radice lo spirito pubblico, si fa corruttore del popolo sovrano, mina la legalità e la convivenza pacifica, semina servilismo, odio e violenza. Ciò crea nell’uomo della strada ragionevole – se ancora è libero di ragionare – ogni sospetto sulla cattiva coscienza di chi si sottrae in questo modo al giudizio, e suscita nei meno onesti la voglia di imitare l’astuzia e la frode dell’uomo forte, oppure di reagire per vie di fatto, invece che con le regole della politica democratica.

Proprio in antitesi al potere della ricchezza, comunque raccolta, la prima parte dell’art. 1 definisce l’Italia una «repubblica democratica, fondata sul lavoro». Fondata, cioè, sul contributo di ognuno al bene comune. Chi ha più beni non ha più diritti, e semmai ha più doveri. Chi ha beni insufficienti, che limitano di fatto la sua libertà ed eguaglianza con gli altri cittadini, e impediscono il pieno sviluppo della sua persona e la sua partecipazione effettiva alla vita del Paese, ha uno speciale diritto – che il ricco non ha – a che la Repubblica operi con la politica a rimuovere quegli ostacoli (così dispone il grande art. 3, la “super-norma” della nostra esemplare Costituzione).

L’azione politica, nella Repubblica democratica, ha il compito di realizzare l’uguale dignità e libertà di tutti, nella giustizia sociale, e assolutamente non ha da sancire la disuguaglianza di fortuna.

Il comportamento politico di Berlusconi, fino alle vicende di questi giorni, lo lascia per ora formalmente inamovibile, ma lo priva ulteriormente di rispettabilità politica, in quanto eversore morale dell’etica necessaria nella “polis” umana e civile.

Enrico Peyretti